Gaming as Public History

Monthly Editorial: April 2023

Abstract: The game experience, as it involves a set of rules and implies choices, leads one to develop a consciousness of exercising complexity. The game and particularly the video game, due to the interactivity that is inherent in it, is a participatory medium par excellence and therefore presents itself as a privileged practice of public history. However, these are practices that involve a whole series of problems and pose questions that are still open.
DOI: dx.doi.org/10.1515/phw-2023-21362
Languages: Italian, English


Nelle scuole e nei musei si stanno utilizzando in maniera crescente giochi e videogiochi ad ambientazione storica. Si tratta di pratiche di Digital Public History che aprono opportunità e pongono altrettanti problemi. È possibile esercitare una capacità critica di storico attraverso le pratiche ludiche? Come dobbiamo porci di fronte a videogiochi che trattano temi sensibili nel dibattito pubblico? Come possiamo includere il gioco nella didattica? Possiamo utilizzarlo per valorizzare il patrimonio storico-culturale?

Processi di ri-immaginazione

L’efficacia dei videogiochi storici dipende dalla loro capacità di favorire processi di immaginazione e ri-immaginazione di eventi, processi e concetti storici. L’uso o la creazione di giochi nelle partite e negli studi di public history non è tuttavia esente da problemi. Da una parte ci sono tutte le questioni relative alla corretta contestualizzazione che, come nel caso dei film o dei romanzi storici, è un obiettivo sovente perseguito e sempre auspicabile, ma impossibile da raggiungere con pieno successo. Dall’altro lato il coinvolgimento, che dal punto di vista della public history è certamente considerato una “buona pratica”, in ambito ludico può diventare anche un boomerang, favorendo l’identificazione con narrative storiche “sensibili”.

Un altro fronte delicato è quello dell’apprendimento, quando il gioco è – o si ritiene possa essere – utilizzato in ambito didattico. Quanto e come è valutabile il livello di apprendimento? E su quali aspetti della narrazione storica? Ancora a monte di queste domande, che richiedono un dibattito consapevole da parte dei public historian, fanno l’occhiolino questioni più strutturali e non facilmente risolvibili.

Se infatti si guarda alla scuola o alle strutture museali come gli utilizzatori migliori dei giochi storici nell’ambito di pratiche di public history, nei paesi europei sussistono ancora gravi carenze, a livello sia degli investimenti, sia della formazione degli operatori. Un museo come un istituto scolastico (o ancor di più un docente) incontra infatti serie difficoltà a far acquistare un prodotto sul mercato e, ancor più, a farne costruire uno ad hoc, utile per il progetto che intende promuovere. Anche presumendo agevole un ragionevole e ponderato acquisto, la struttura dovrà chiedersi quante e quali licenze comprare, su quali supporti hardware farle girare, di quali eventuali dispositivi per le esperienze immersive dotarsi. Almeno in Italia il corpo docente e dirigente delle strutture scolastiche e museali non possiede la formazione idonea per muoversi in questa direzione e di conseguenza nemmeno quella necessaria per un uso corretto e utile dei prodotti.

Le due problematiche: quella sostanzialmente teorico-epistemologica e quella strutturale-formativa sono ovviamente strettamente correlate. Nei contributi che in questo numero si presentano emerge con maggior forza la prima, quella in cui gli esperti di public history sono maggiormente in grado di intervenire. Riteniamo comunque importante che si discuta – meglio sarebbe anche si agisca – anche nella seconda, promuovendo concrete sperimentazioni con il mondo delle scuole e del patrimonio culturale per vagliare la perseguibilità di strategie d’utilizzo del gioco in pratiche di public history .

Si può fare storia giocando?

Presumendo in prima istanza l’uso di giochi storici già disponibili sul mercato, la prima domanda che sorge è quella relativa al valore della interattività che questi richiedono. La domanda infatti che è lecito porsi è fino a che punto la partecipazione “produce” diverse o nuove visioni della storia e, se queste sono condivise e promosse (ad esempio tramite i social network), “fa” storia. Se ne discute nel primo contributo (Stefano Caselli) che riflette su come si possa fare storia giocando da una prospettiva ermeneutica.

Il punto di partenza da cui prende le mosse la riflessione è che i videogiochi si configurano come “fiction interattive”. Chi gioca con l’obiettivo di videogiocare con la storia fa ricorso all’immaginazione e all’interpretazione. Il giocatore può esercitare la sua capacità di ricreare e interpretare il passato partendo dalle tracce nel presente e ricorrendo all’ “immaginazione archeologica”. Ma può anche fare uso dell’“immaginazione controfattuale” che invita a stimolare un atteggiamento creativo e critico di rielaborazione della storia. Infine può affidarsi all’ “immaginazione metaforica” che è altrettanto utile per favorire la comprensione storica, dal momento che le metafore consentono di reinterpretare il passato attraverso mondi fantasy.

Le simulazioni storiche possono contribuire alla conoscenza del passato: sperimentando gli effetti dell’interazione è possibile acquisire una consapevolezza dei processi storici. Ciò significa che non è tanto la qualità dell’ambientazione a dirci se quel gioco è utile in un’ottica di public history, quanto l’interazione del giocatore con il videogioco.[1]

Se esaminiamo questa domanda alla luce di un possibile uso didattico, il problema emerge in maniera potente: come valuto e guardo all’interazione, come dirigo e oriento la classe verso un’interazione che da un lato appassioni, diverta e faccia partecipare, ma dall’altro non conduca visioni e lettore della storia prive di fondamento scientifico?

DOI: dx.doi.org/10.1515/phw-2023-21323

La storia sensibile

C’è poi la questione del pubblico generalista, un pubblico più ampio e ovviamente non controllabile della scolaresca o del gruppo in visita a un museo. I videogiochi hanno infatti raggiunto un pubblico più vasto della ristretta nicchia di amatori e questo ha avuto spesso conseguenze sul dibattito pubblico, specie se vengono affrontati temi del passato “sensibili” o che riguardano memorie divisive.

Il nazismo o il genocidio degli ebrei sono spesso esclusi dalla rappresentazione ludica, perché la dinamica del gioco tende a porre tutti gli attori in campo come egualmente legittimi e questo crea (o può creare) controversie in sede di dibattito pubblico. Se ad esempio interpretiamo il ruolo del soldato tedesco, potremmo finire per giustificare scelte ingiustificabili come l’Olocausto; inoltre il ruolo potrebbe facilmente condurci a coltivare sentimenti d’odio e ad esprimerli nell’interazione.[2]

Il secondo contributo di Francesco Toniolo affronta appunto il tema delle memorie divisive nei videogiochi. Ciò che si deve evitare è avere uno sguardo “oggettivo” sugli eventi, soprattutto se il videogioco contiene riferimenti a temi “sensibili” per il dibattito pubblico. Risulta infatti estremamente utile scegliere di adottare diversi punti di vista sullo stesso evento per poi attivare un processo di comparazione. La componente interattiva favorisce la trasmissione del discorso storico grazie alla capacità del videogioco di veicolare al giocatore informazioni sugli eventi del passato.

Ciò che realmente rappresenta il fulcro della questione è il rapporto che il giocatore instaura con il videogioco. Ne consegue che la storicità nei videogiochi non deve essere intesa come un elemento “ontologico”, dal momento che essa muta a seconda dell’interazione che i giocatori stabiliscono con il videogioco. Se facciamo mente locale sui contesti d’uso ci rendiamo però conto di quanto questa linea sia di difficile applicazione: la rinuncia a la dimensione ontologica della storia è infatti lontana da entrare nelle pratiche correnti, nonostante i passi avanti fatti dalla public history. Le questioni etiche e metodologiche sono qui potentemente alla sbarra, gestirle non crediamo sia facile.

DOI: dx.doi.org/10.1515/phw-2023-21325

Didattica e gioco

Il videogiocatore apprende attraverso un’esperienza interattiva. La dimensione ludica deve però essere tutelata sin dall’inizio e non deve mai venire meno, anche quando l’obiettivo è quello di trasmettere conoscenza sul passato. Per funzionare il gioco deve essere immersivo e gratificante, in modo che il giocatore possa essere invogliato a proseguire nell’esperienza ludica. Risulta invece inutile un gioco pensato solo per la didattica, che rinunci a offrire divertimento per anteporre lo scopo dell’apprendimento all’esperienza di gioco.

L’intervento di Raffaele Guazzone invita a riflettere su questa problematica. L’esperienza ludica non fa infatti che promuovere un “apprendimento laterale”: questo significa che avviene in maniera autonoma, in contrasto con il metodo tradizionale dell’insegnamento, che prevede il trasferimento e la successiva verifica delle conoscenze. Quindi in classe l’esperienza ludica non può rappresentare il traguardo. Una volta conclusa l’esperienza di gioco, l’insegnante dovrà infatti procedere con la fase di debriefing, ovverosia dovrà accompagnare gli studenti in un’operazione volta a decostruire le narrazioni di cui sono stati protagonisti giocando e mettere a confronto ciò che è stato appreso con le conoscenze pregresse o in via di acquisizione.

L’insegnante potrà porsi come figura di mediatore preposta a seguire lo studente-giocatore durante, prima e dopo il gioco, nell’intento di contribuire a riflessioni su come gli eventi storici siano stati rappresentati. Dal momento che ciascun giocatore, sfruttando l’interattività, finisce per fruire del gioco in maniera differente rispetto ad un altro giocatore, ne consegue che chi gioca non può che recepire diversamente contenuti che sono per loro stessa natura variabili. Se l’interattività produce una molteplicità di significati storici, l’insegnante potrà /dovrà avviare una discussione su quali fonti sono state impiegate dai game designer, ma anche evidenziare inesattezze, per quanto l’obiettivo non dovrebbe essere quello di testare la fedeltà storiografica della ricostruzione.

L’insegnante potrebbe accompagnare lo studente ad effettuare esperimenti di storia controfattuale, a progettare il gioco, ma anche a collaborare con i compagni di scuola seguendo il modello dei videogiochi di ruolo.[3] Si tratta di una proposta pienamente condivisibile ma, anche in questo caso di non facile applicazione. Non esiste infatti oggi, almeno in Italia, un percorso formativo per insegnanti specificatamente dedicato all’uso dei giochi in ambito didattico. Vi è poi da considerare anche la necessità di educare nelle soft skills, nello specifico la capacità di collaborare e l’empatia. Se da un lato l’inclusione di una didattica ludica nei programmi scolastici sarebbe auspicabile per ridurre la distanza tra scuola e società, dall’altro occorre non cadere nella trappola di esaltare una gamification esasperata, ispirata per altro al modello ultracompetitivo della società contemporanea.

DOI: dx.doi.org/10.1515/phw-2023-21326

Gioco e beni culturali

Dando per scontato il fatto che producendo un gioco storico, si fa storia, ma che questa pratica è spesso fuori della portata di molti ricercatori e studiosi, un settore dove invece si dovrebbe e potrebbe agire in questa direzione, ossia creando effettivamente contesti di gioco “sartoriali” è certamente quello del Cultural Heritage.

Il gioco esprime appieno una narrativa esperienziale che lo rende infatti particolarmente adeguato non solo a fini didattici, ma anche a promuovere l’eredità culturale materiale e immateriale. Igor Pizzirusso avvia appunto una riflessione su come le pratiche ludiche possano essere impiegate per valorizzare il patrimonio museale, archeologico e archivistico. A differenza delle visite guidate virtuali, che implicano una ricezione passiva delle informazioni, l’esperienza ludica, grazie all’interattività, consente infatti al giocatore, in particolare il videogiocatore, di divenire protagonista di un percorso conoscitivo che lo porterà a ripercorrere gli eventi del passato all’interno di una narrazione storica coerente.

Il gioco può inoltre invogliare l’utente a visitare dal vivo il museo o l’archivio. L’esperienza ludica e la conseguente fruizione interattiva dell’oggetto o del documento facilitano il coinvolgimento del giocatore e in taluni casi permettono di connettere il passato con il presente, valorizzando in questo modo la collezione di un museo o di un archivio. Inoltre le meccaniche di gioco basate sul collezionismo aiutano a maturare un interesse per gli oggetti museali. Il gioco consente anche di riscoprire ed esplorare virtualmente il territorio e comprendere l’evoluzione che ha conosciuto nel corso del tempo. Rivivendo in prima persona un’epoca o un evento il giocatore potrà interrogarsi sulla società del tempo e, nel farlo, potrà confrontarsi con le fonti storiche e i reperti museali. Queste potranno essere impiegate come ausilio per approfondire la conoscenza dei fatti storici oppure come elementi attivi della meccanica di gioco. Pertanto non si tratterà di assegnare loro un ruolo secondario e ancillare, bensì una funzione di rilievo per l’esperienza ludica.

DOI: dx.doi.org/10.1515/phw-2023-21327

Questo settore ha già alle sue spalle interessanti e importanti esperienze, quale il collettivo TuoMuseo firmato da artisti, game designer, developer, sound designer ed animatori 3D che lavora proprio nell’intersezione tra arte e videogiochi. Ma ancora molta strada crediamo sia da percorrere affinché l’esperienza ludica e videoludica entri di diritto nelle pratiche museali.

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Per approfondire

  • Wainwright, A. Martin. Virtual history: How videogames portray the past. London-New York: Routledge, 2019.
  • Chapman, Adam. Digital games as history: How videogames represent the past and offer access to historical New York: Routledge, 2016.
  • McCall, Jeremiah. “Teaching History With Digital Historical Games,” Simulation & Gaming, vol. 47, no. 4 2016: 517–542. https://doi.org/10.1177/1046878116646693.

Siti web

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[1] Stefano Caselli, ed. La storia in gioco. Prospettive e limiti del racconto storico in forma ludica. Milan: Biblion, 2022.
[2] Eugen Pfister. «Man Spielt Nicht Mit Hakenkreuzen!’. Imaginations of the Holocaust and Crimes Against Humanity During World War II in Digital Games». In Historia ludens. The playing historian, ed. Alexander von Lünen, Katherine J. Lewis, Benjamin Litherland, and Pat Cullum, 277–79. London: Routledge, 2020.
[3] Antonio Brusa. Giochi per imparare la storia. Percorsi per la scuola. Rome: Carocci, 2022.

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Image Credits

Cyberpunk 2077 © Delyth Angharad CC BY-NC-2.0 via flickr.

Recommended Citation

Paci, Deborah, Enrica Salvatori: Gaming as Public History. In: Public History Weekly 11 (2023) 3, DOI: dx.doi.org/10.1515/phw-2023-21362.

Editorial Responsibility

Arthur Chapman

Games and video games with historical settings are increasingly being used in schools and museums. These are Digital Public History practices that open up opportunities and raise just as many problems. Is it feasible to engage a critical historical capacity through games practices? How should we approach video games that deal with topics that are of concern in public debates? How can we include gaming in education? Can we use it to enhance cultural and historical heritage?

Processes of Re-Imagination

The success of historical video games depends on their ability to foster processes of imagination and re-imagination of historical events, processes and concepts. However, the use or creation of games in public history studies is not without its problems. On the one hand, there are all the issues related to correct contextualisation, which, as in the case of films or historical novels, is an often pursued and always desirable goal, but impossible to achieve with complete success. On the other hand, involvement, which from the point of view of public history is certainly considered a “good practice”, can also become a boomerang in the field of play, encouraging identification with “sensitive” historical narratives.

Another delicate issue is that of learning, when play is – or is considered to be – used in the educational sphere. How much and how is the level of learning assessable? And on which aspects of historical narration? Still ahead of these questions, which call for a conscious debate on the part of public historians, are more structural issues that are not easily resolved.

If one looks at schools or museum facilities as the best users of historical games in the context of public history practices, there are still serious shortcomings in European countries, both in terms of investments and training of operators. In fact, a museum, like a school (or even more so a teacher) encounters serious difficulties in having a product purchased on the market and, even more so, in having one built ad hoc, useful for the project it intends to promote. Even assuming a reasonable and well-considered purchase, the structure will have to ask itself how many and which licences to buy, on which hardware supports to run them, which possible devices for immersive experiences to equip itself with. At least in Italy the teaching and management staff of schools and museums do not have the appropriate training to move in this direction, and consequently not even that necessary for a correct and useful application of the products.

The two problems – the essentially theoretical-epistemological one and the structural-formative one – are obviously closely related. In the contributions presented in this issue, the former emerges most strongly, the one in which public history experts are most able to intervene. We believe, however, that it is important to discuss – better still, to act – on the latter, promoting concrete experiments with the world of schools and cultural heritage in order to examine the feasibility of strategies for using games in public history practices.

Can History be made by Playing?

Assuming in the first instance the use of historical games already available on the market, the first question that arises is that of the value of interactivity that these require. In fact, the question to be asked is to what extent participation “produces” different or new visions of history and, if these are shared and promoted (e.g. via social networks), “makes” history. This is discussed in the first contribution (Stefano Caselli), which reflects on how history can be made from a hermeneutic perspective.

The starting point for reflection is that video games are configured as “interactive fictions”. Those who play games with the aim of playing with history have a recourse to imagination and interpretation. The player can exercise his ability to recreate and interpret the past from traces in the present and make use of the “archaeological imagination”. But he can also make use of the “counterfactual imagination”, which invites him to stimulate a creative and critical attitude of reworking history. Finally, he can rely on the “metaphorical imagination”, which is equally useful in fostering historical understanding, since metaphors allow reinterpreting the past through fantasy worlds.

Historical simulations can contribute to knowledge of the past: by experiencing the effects of interaction, an awareness of historical processes can be gained. This means that it is not so much the quality of the setting that tells us whether that game is useful from a public history perspective, but the player’s interaction with the video game.[1]

If we examine this question in the light of a possible pedagogical use, the problem emerges powerfully: how do I evaluate and look at the interaction, how do I direct and steer the class towards an interaction that on the one hand excites, entertains and makes people participate, but on the other hand does not lead to visions and readers of history without a scientific basis?

DOI: dx.doi.org/10.1515/phw-2023-21323

Sensitive History

Then there is the question of the general audience, a wider and obviously uncontrollable audience than a school group or a group visiting a museum. In fact, video games have reached a wider audience than the narrow niche of amateurs and this has often had consequences for the public debate, especially when dealing with “sensitive” issues of the past or divisive memories.

Nazism or the genocide of the Jews are often excluded from playful representation, because the dynamics of the game tend to place all actors in the field as equally legitimate and this creates (or can create) controversy in public debate. If, for example, we play the role of the German soldier, we may end up justifying unjustifiable choices such as the Holocaust; furthermore, the role may easily lead us to cultivate feelings of hatred and express them in interaction.[2]

The second contribution (Francesco Toniolo) deals precisely with the topic of divisive memories in video games. What must be avoided is to have an “objective” view of events, especially if the video game contains references to “sensitive” topics for public debate. In fact, it is extremely useful to adopt different points of view on the same event in order to then activate a process of comparison. The interactive component favours the transmission of the historical discourse thanks to the video game’s ability to convey information about past events to the player.

What is really at the heart of the matter is the relationship the player establishes with the video game. It follows that historicity in video games should not be understood as an “ontological” element, since it changes according to the interaction players establish with the video game. If we think back to the contexts of use, however, we realise how difficult this line is to apply: the rejection of the ontological dimension of history is in fact far from entering current practice, despite the strides made by public history. Ethical and methodological issues are powerfully at stake here; managing them we do not believe is easy.

DOI: dx.doi.org/10.1515/phw-2023-21325

Education and Gaming

The gamer learns through an interactive experience. However, the playful dimension must be preserved from the outset and must never be lost, even when the goal is to transmit knowledge about the past. To work, the game must be immersive and rewarding, so that the player can be enticed to continue the playful experience. On the other hand, a game designed solely for educational purposes, which renounces offering entertainment in order to put the purpose of learning before the gaming experience, is useless.

Raffaele Guazzone‘s intervention calls for reflection on this issue. The play experience only promotes “lateral learning”: this means that it takes place autonomously, in contrast to the traditional teaching method, which involves the transfer and subsequent verification of knowledge. So in the classroom, the playful experience cannot be the goal. Once the play experience is over, the teacher must in fact proceed with the debriefing phase, i.e. he or she must accompany the students in an operation aimed at deconstructing the narratives they have been the protagonists of by playing, and comparing what has been learnt with previous knowledge or knowledge in the process of being acquired.

The teacher can act as a mediator figure in charge of following the student-player during, before and after the game, with the aim of contributing to reflections on how historical events have been represented. Since each player, by exploiting interactivity, ends up enjoying the game in a different way to another player, it follows that the player cannot but perceive differently contents that are by their very nature variable. If interactivity produces a multiplicity of historical meanings, the teacher can/should initiate a discussion on which sources were used by the game designers, but also point out inaccuracies, although the aim should not be to test the historiographical fidelity of the reconstruction.

The teacher could accompany the student to perform counterfactual history experiments, to design the game, but also to collaborate with fellow students following the role-playing game model.[3] This is a fully sharable proposal but, again, one that is not easy to follow. There is in fact no teacher training course today, at least in Italy, specifically dedicated to the use of games in education. Then there is also the need to educate in soft skills, specifically the skill of cooperation and empathy. While the inclusion of playful didactics in the school curriculum would be desirable to reduce the distance between school and society, we must not fall into the trap of exaggerating gamification, inspired by the ultra-competitive model of contemporary society.

DOI: dx.doi.org/10.1515/phw-2023-21326

Gaming and Cultural Heritage

Assuming that by producing a historical game, one makes history, but that this practice is often beyond the reach of many researchers and scholars, an area where one should and could instead act in this direction, i.e. by actually creating “tailor-made” game contexts, is certainly that of Cultural Heritage.

Gaming fully expresses an experiential narrative that in fact makes it particularly suitable not only for educational purposes, but also to promote tangible and intangible cultural heritage. Igor Pizzirusso initiates precisely a reflection on how playful practices can be used to enhance museum, archaeological and archival heritage. Unlike virtual guided tours, which imply a passive reception of information, the game experience, thanks to interactivity, in fact allows the player, in particular the videogame player, to become the protagonist of a cognitive journey that will lead him/her to retrace the events of the past within a coherent historical narrative.

The game can also entice the user to visit the museum or archive in person. The playful experience and the resulting interactive use of the object or document facilitate the involvement of the player and in some cases connect the past with the present, thus enhancing the collection of a museum or archive. Moreover, the game mechanics based on collecting help to develop an interest in museum objects. The game also makes it possible to rediscover and explore the area virtually and understand how it has evolved over time. By reliving an era or event first-hand, the player can question the society of the time and, in doing so, can confront historical sources and museum exhibits. These can be used as an aid to deepen the knowledge of historical facts or as active elements of the game mechanics. Therefore, it will not be a question of assigning them a secondary and ancillary role, but rather an important function for the play experience.

DOI: dx.doi.org/10.1515/phw-2023-21327

This sector already has interesting and important experiences behind it, such as the TuoMuseo collective of artists, game designers, developers, sound designers and 3D animators working at the intersection of art and video games. But there is still a long way to go, we believe, before the game and video game experience becomes part of museum practices.

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Further Reading

  • Wainwright, A. Martin. Virtual history: How videogames portray the past. London-New York: Routledge, 2019.
  • Chapman, Adam. Digital games as history: How videogames represent the past and offer access to historical New York: Routledge, 2016.
  • McCall, Jeremiah. “Teaching History With Digital Historical Games,” Simulation & Gaming, vol. 47, no. 4 2016: 517–542. https://doi.org/10.1177/1046878116646693.

Web Resources

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[1] Stefano Caselli, ed. La storia in gioco. Prospettive e limiti del racconto storico in forma ludica. Milan: Biblion, 2022.
[2] Eugen Pfister. «Man Spielt Nicht Mit Hakenkreuzen!’. Imaginations of the Holocaust and Crimes Against Humanity During World War II in Digital Games». In Historia ludens. The playing historian, ed. Alexander von Lünen, Katherine J. Lewis, Benjamin Litherland, and Pat Cullum, 277–79. London: Routledge, 2020.
[3] Antonio Brusa. Giochi per imparare la storia. Percorsi per la scuola. Rome: Carocci, 2022.

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Image Credits

Cyberpunk 2077 © Delyth Angharad CC BY-NC-2.0 via flickr.

Recommended Citation

Paci, Deborah, Enrica Salvatori: Gaming as Public History. In: Public History Weekly 11 (2023) 3, DOI: dx.doi.org/10.1515/phw-2023-21362.

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Arthur Chapman

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DOI: dx.doi.org/10.1515/phw-2023-21362

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