from our “Wilde 13” section
Abstract: A game is really more attractive and engaging than a handbook, but how can it be used at school? Far from being simply comparable to an alternative medium, it could be an unexpected resource for a teacher, allowing teachers to activate particular competences, becoming a complex text to deconstruct, or also an artifact to design: hence a powerful engine to build the capacity to think historically. But it must be used counsciously, the risk of excessive gamification in teaching is just around the corner.
DOI: dx.doi.org/10.1515/phw-2023-21326
Languages: Italian, English
Quando nell’ottobre 2016 è stato pubblicato Battlefield 1, diverse voci in Italia hanno chiesto di ritirare il gioco, in parte ambientato sul fronte italiano durante la Prima guerra mondiale: secondo l’Associazione Nazionale Alpini il titolo avrebbe rappresentato una mancanza di rispetto per i tanti caduti. Insomma, non si scherza con la memoria collettiva.
Non un accenno ai morti
Dopo sei anni viene distribuito WW1: Isonzo. L’ambientazione è molto simile, eppure l’unico dibattito sollevato è sui siti specializzati, e le principali critiche sono rivolte alla giocabilità. Non un accenno ai morti, non un’accusa di lesa maestà. Probabilmente era già pretestuosa la polemica del 2016, ma risulta evidente come oramai anche i videogiochi siano ben integrati nel discorso pubblico, e non più visti come prodotti riservati a una nicchia ristretta.
L’unico settore che ancora pare resistere al cambiamento, come spesso accade, è quello dell’istruzione: ad un insegnante attento però non sfugge che molti dei giochi più popolari spesso sono basati su eventi storici centrali nel curriculum. È molto probabile che un alunno medio abbia ottime preconoscenze circa gli armamenti della Seconda guerra mondiale, conosca i vantaggi dell’arco lungo inglese e sappia valutare i rischi di un’unità di cavalleria di fronte alle prime armi da fuoco. I nostri alunni si sono aggirati fra le trincee del fronte occidentale, hanno provato a resistere alle invasioni barbariche nei panni di generali romani o hanno cercato di far prosperare un regno feudale molto prima che un insegnate di storia affrontasse questi argomenti in classe.
I giochi come fonte per la storia
I giochi, digitali o tradizionali, rappresentano solo una delle tante fonti di conoscenza informale attraverso cui uno studente comincia ad acquisire informazioni storiche, insieme a fumetti, film, e serie tv. L’immaginario pubblico è spesso ricco di questo genere di stimoli, seppure con gradi di accuratezza differente, che però rappresentano una fonte potente per un insegnante. Nel caso specifico del videogioco, ci sono molteplici aspetti utili ad alleviare alcuni dei problemi tipici di chi studia storia, spesso percepita come materia difficile, poco coinvolgente, scarsamente applicabile alla vita reale.
Ogni gioco, indipendentemente dal supporto, promuove un apprendimento laterale: i giocatori hanno modo di esplorare, riflettere ed agire acquisendo esperienza in modo autonomo prima di essere giudicati competenti; questo tempo di apprendistato non è concesso in una scuola che si limita a fornire e testare conoscenze, mentre un insegnante esperto sa bene l’importanza di fornire innanzitutto strumenti critici (come lavora uno storico, cos’è una fonte, quali informazioni possono esserne dedotte), e solo in seguito costruire keyframes significativi adeguati alle competenze degli alunni, all’interno dei quali sperimentare le capacità acquisite scendendo in profondità, attraverso attività laboratoriali o studi di caso.
Giocare è un’esperienza immersiva, basata su un tipo di narrazione non sempre lineare: diversamente da un film o una lezione, implica immedesimazione e coinvolgimento attivo. Un gioco, per funzionare, deve soddisfare alcuni requisiti: essere sfidante, immersivo, non lasciare troppo al caso, bilanciare adeguatamente competizione e collaborazione, gratificare il giocatore con ricompense e progressi adeguati al suo sforzo. Tutti ingredienti che dovrebbe avere anche una buona lezione di storia.
Ovviamente, non tutti i giochi si prestano ad un utilizzo in classe, e molti prodotti concepiti per questo scopo si sono rivelati dei fallimenti: difficilmente un gioco pensato per la didattica riesce ad essere divertente, perché antepone l’insegnamento all’esperienza di gioco. Sta quindi all’insegnante capire come usare giochi pensati per altri scopi – oppure progettarne di nuovi, magari insieme agli alunni – ed inserirli nella propria cassetta degli attrezzi, senza cadere in facili tentazioni: non tutte le questioni didattiche possono essere risolte per mezzo di un gioco, ma tali attività devono essere integrate in un percorso articolato.
L’importanza del dopogioco
In classe l’esperienza ludica è solo una parte dell’attività: una volta immersi nel gioco bisogna riemergere e individuare che cosa abbiamo imparato, smontare le narrazioni di cui siamo stati protagonisti, riflettere su come e perché gli autori hanno costruito il loro prodotto, mettere in relazione le nuove scoperte fatte con quanto già appreso: la fase del debriefing è il momento in cui l’insegnante può spegnere la consolle, riporre dadi carte e pedine, e tornare in cattedra.
Eliminare questo passaggio significa svuotare di senso ogni tipo di approccio ludico alla didattica, rinunciare ad insegnare e limitarsi ad intrattenere la classe: è il momento della ristrutturazione cognitiva, in cui vengono fissati gli stimoli offerti dal gioco e le nuove conoscenze vengono contestualizzate accanto a quelle precedenti.
Giochi come testo da decostruire
Uno dei modi per sfruttare un gioco è considerarlo come un artefatto complesso da smontare. A ciò ben si prestano titoli in cui è centrale la ricostruzione grafica del passato, come gli episodi della serie Assassin’s Creed, che possono essere usati in classe come una sorta di manuale virtuale: l’esperienza immersiva cattura l’attenzione degli studenti decisamente meglio che le pagine di carta, specie se la loro esplorazione è guidata da richieste precise che l’insegnante ha fornito in precedenza. Al termine del gioco le scoperte possono venire messe a confronto con le fonti storiografiche tradizionali, si può discutere della selezione e dell’uso di tali materiali da parte degli autori, oppure andare a caccia di eventuali incongruenze, esprimendo valutazioni quando la fantasia contraddice la realtà dei fatti storici.
Giochi di strategia come Civilization o Victoria ben si prestano a confrontare con la realtà virtuale le conoscenze sull’evoluzione culturale e tecnologica delle civiltà del passato, ma possono essere anche usati per qualche esperimento di storia controfattuale: sarebbe stato possibile per un impero precolombiano conquistare la Spagna? Basta fare qualche partita a Europa Universalis IV per rendersene conto. Il loro valore aggiunto insomma non sta tanto nella fedeltà storiografica della ricostruzione, ma nella libertà di cui l’utente gode per creare nuovi scenari, cercando di ottenere risultati migliori rispetto a quelli che la cultura che sta impersonando ha ottenuto nella realtà, interrogandosi sugli errori commessi nel passato e cercando soluzioni alternative.
Giochi da progettare
Il gioco può anche essere considerato un artefatto da progettare, ad esempio introducendo le basi del coding con Scratch, linguaggo di programmazione pensato espressamente per la didattica: è possibile creare facilmente semplici giochi e animazioni a tema storico, prevedendo una prima fase di progettazione dei contenuti e una seconda di scrittura del codice. Allo stesso modo, si possono costruire avventure testuali con Twine, rielaborando in forma narrativa avvincente contenuti storici in un esperimento di digital (hi)story telling.
Si possono poi utilizzare giochi open world come motori di realtà virtuale per chiedere agli alunni di realizzare progetti coerenti con quanto studiato: con Minecraft possiamo ad esempio chedere come costruire un sito industriale nell’Inghilterra di fine ‘600 o una curtis, dopo aver analizzato alcune fonti primarie come gli inventari.
Accantonando il mondo digitale, è possibile anche sfruttare dinamiche di giochi commerciali per creare varianti da realizzare e sfruttare in classe: a questo scopo ben si prestano giochi di carte come Anno Domini, basta raccogliere la cronologia degli eventi presentati durante le lezioni e realizzare un mazzo personalizzato, creando facilmente un’attività utile al ripasso.
Giochi per potenziare competenze trasversali
Molti MMORPG si basano sulla collaborazione fra giocatori per raggiungere un obiettivo: perché i nostri alunni, così bravi a darsi una mano giocando a Fortnite o a Call of Duty, fanno così fatica a lavorare in gruppo? Certamente nella scuola prevale la dimensione della ricompensa individuale e del voto, mentre nella vita reale le competenze sociali sono fondamentali.
Il gioco da tavolo Paleo, ad esempio, permette di impersonare i membri di una tribù paleolitica: oltre ad una buona ricostruzione della quotidianità dei nostri antenati, il gioco impone ai partecipanti di collaborare prendendo decisioni fondamentali per la sopravvivenza dell’intero gruppo. Non c’è un singolo vincitore e solo l’aiuto reciproco permette di arrivare alla fine del gioco.
I rischi della gamification
Come già detto, non tutti i giochi si prestano ad un uso didattico. E non tutte le storie si prestano ad essere giocate: il rischio è quello della banalizzazione, dell’edutainment. Il gioco non deve essere solo un’attività per alleggerire il peso delle lezioni, ma piuttosto promuovere hard fun, cioè il piacere dell’apprendimento quando la sfida posta dall’insegnante è al giusto livello.
Nell’episodio La diseducazione di Lisa Simpson [1](ep. 12, s. 31), la scuola di Springfield viene sostituita da un nuovo istituto ipertecnologico, la cui didattica si basa su STEM, gamification spinta e dispositivi costantemente connessi. Bart, pessimo studente ma grande giocatore, ribalta i propri risultati e comincia a mietere successi finché Lisa non scopre l’inganno: dietro a tutte le attività si cela il progetto di rendere gli studenti schiavi e plasmare il loro futuro nel mondo della gig economy, dove ogni attività produttiva sarà subappaltata alle macchine e il solo lavoro che anche i robot rifiuteranno sarà prendersi cura degli anziani.
La gamification eccessiva tende troppo spesso ad esasperare contraddizioni presenti nella nostra società e nel suo modello economico ultracompetitivo, che premia chi è già bravo e spesso emargina chi è in difficoltà. Tutte cose che la scuola dovrebbe evitare.
In conclusione, un insegnante di storia deve essere anche un gamer? Non per forza, ma se potessimo dare un consiglio a chi si occupa della formazione dei futuri insegnanti, inseriremmo nei percorsi universitari anche un corso di didattica ludica: non si tratta tanto di cancellare il gap generazionale fra insegnante e studenti, ma di ridurre quello fra il mondo della scuola e la vita di tutti i giorni.
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Per approfondire
- Chapman, Adam. Digital Games as History: How Videogames Represent the Past and Offer Access to Historical Practice. London, Routledge, 2016.
- Brusa, Andrea. Giochi per imparare la storia: Percorsi per la scuola. Roma, Carocci, 2022.
- Gee, James Paul. What Video Games Have to Teach Us About Learning and Literacy. New York, St. Martin’s Press, 2007.
Siti web
- Scratch library: https://scratch.mit.edu/explore/projects/games/ (last acccessed 17 April 2023).
- The Miseducation of Lisa Simpson: https://www.youtube.com/watch?v=vbhWyA5ypks (last acccessed 17 April 2023).
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[1] Estratti: https://www.youtube.com/watch?v=vbhWyA5ypks (ultimo accesso 17 Aprile 2023).
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Image Credits
© 2014 Smithsonian Education CC BY-NC-2.0 via flickr.
Recommended Citation
Guazzone, Raffele: Cooperate, Deconstruct, Design. In: Public History Weekly 11 (2023) 3, DOI: dx.doi.org/10.1515/phw-2023-21326.
Editorial Responsibility
When in 2016 Battlefield 1 was released, many voices were raised in Italy, asking to recall the game, partially set on the Italian front during WW1. According to the National Alpine Trooper Association it would be disrespectful towards the hundreds of fallen on Mount Grappa, as if to say, don’t play with collective memory.
Not a Word About Dead Soldiers
After six years, in WW1: Isonzo the setting is quite similar, but the debate had moved to specialized websites only, and the main comments related to playability. Not a word was heard about dead soldiers, not a question was asked about disrespect. Probably the argument was already specious in 2016, but this seems obvious now, with games well-integrated in public discourse, and no longer seen as a niche product.
The only sector that holds-out against change, as in many cases, is education, but a well-informed teacher will surely have noticed that many popular games are based on key historical events, focal points in any curriculum. The average student might now probably have a good knowledge about WW2 weaponry, and might be able to explain the tactical advantages of English longbow, or to evaluate the risk for a unit of knights facing the first firearms. They may have wandered through trenches on the Western Front, attempted to resist barbarian invasions as a Roman general, or tried to rule a prosperous feudal reign long before their history teacher takes on these subjects during their lessons.
Games as a Source for History
Games, whether digital or traditional, are one of the sources of informal knowledge through which a student starts gathering historical information, along with graphic novels, movies and TV shows. Collective imagination is often filled with such sources, albeit with different degrees of historical accuracy, which can be a powerful tool for a teacher. Especially through digital games, there are many opportunities to mitigate some of the most common issues faced when studying history, which is often seen as a difficult subject, that it is difficult to engage students in, and one barely connected to daily life.
Any game, no matter the support, promotes lateral learning: players can explore, reflect and act by acquiring experience autonomously, before being judged competent or not. This apprentice time is not allowed in a school that restricts itself to only supplying knowledge and testing its memorization, but an experienced teacher knows that the first step is to provide students with critical tools (How do historians work? What is a source? What kind of information can be deduced?), and then they can start building meaningful frameworks, suitable for their classroom, allowing students to test acquired skills, going deeper and deeper in historical knowledge, through workshops or case studies.
Games are also an immersive experience, frequently based on a non-linear narration: unlike movies or lectures, gaming implies identification with a character and active engagement. A game, to operate properly, has its requirements: it must be both captivating and challenging, not rely too much on chance, balance competition and collaboration, and gratify players with rewards and progress adequate to their efforts – factors which are also key for a good history lesson.
Clearly, not all games on the market can be effectively used in a classroom, and many of them specifically designed with that aim have turned out to be a failure: a game for education will hardly be fun to play, mainly because it puts teaching before the gaming experience. It is up to teachers to understand how to use games originally intended for other purposes – or to design new ones, maybe together with their students – and add them in their toolbox, avoiding standard solutions. Not all didactic challenges can be solved by a game, but such activities must be integrated into a structured approach.
The Key Role of Debriefing
Ludic experience is only a part of the activities in classroom: after being immersed in a game, students must re-emerge and focus, deconstruct the narrations just re-enacted, reflect on how and why creators have designed the game, draw connections between new discoveries and previous knowledge, and highlight the main topics faced during their experience. Teachers can turn off gaming consoles, put aside dices and pawns an go back to their desks.
Skipping this last and crucial step would deprive any ludic approach to education of meaning, giving up teaching and limiting activity to entertainment. Debriefing is a moment of cognitive reorganization, in which the information gathered, while playing is internalized and new knowledge is contextualised alongside the previous learning.
Games as a Text to Deconstruct
One way to introduce games in history lessons is to consider them as a complex artifact to deconstruct. The most suitable games for this purpose are those in which the graphical reconstruction of the past plays a key role, like all episodes of the Assassin’s Creed series. Such games can be used as virtual handbooks: immersive experience draws the students’ attention much more than reading a paper, even more if their exploration is guided by precise tasks provided before playing. After that, new discoveries can be compared with traditional sources, the class can discuss the choices and use of these materials made by the designers, or start hunting potential inconsistencies and, if imagination denies historical truth, argue the reasons for those decisions.
Strategy games such as Civilization or Victoria are useful to check what students have learnt about cultural or technological developement of past civilizations with virtual reality, but they can also be a counterfactual history experiment. Could a pre-Columbian empire have been able to conquer Spain? Just a few rounds playing Europa Universalis IV may test this hypothesis. Therefore, the added value of these games does not lie in the historical reliability of the reconstruction, but in the freedom that allows the players to create new scenarios, trying to get better results compared to the ones the civilization they are portraying has achieved in reality, wondering about mistakes of the past and looking for alternative solutions.
Games to Design
A game is not only a source for learning, but it can also be intended as an artifact to be designed. In this case some rudiments of coding can be successfully introduced using Scratch, a programming language specifically conceived for education. It makes it easy to create simple games or animations. Teachers can split their classroom in groups, arrange a first step of content-selection and planning, and a second of code-writing. This can involve teamwork skills and can stimulate historical, digital and social competences at the same time. Similarly, one can create old-school text-based adventures with Twine, pushing students to rework historical contents in an engaging narrative from, in a sort of digital (hi)story-telling experiment.
Open-world games can be used as virtual reality engines, asking students to design projects related to what they have been studying: with Minecraft, for instance, teachers can ask them to rebuild an industrial settlement in late XVII century England, or a medieval court, perhaps after analizing some primary sources such as inventories.
Setting aside digital solutions, the gameplay of many analog games can be used to build classroom-adapted variations: it is easy to copy the mechanics of card games like Anno Domini, collecting the chronology of events introduced during lessons and building a customized deck, helping students to revise their knowledge.
Boosting Transversal Competencies
Many massively multiplayer online role-playing games (MMORPG) are based on players cooperating to reach a goal: but why do students, well-trained in helping each other while playing Fortnite or Call of Duty, face so many issues working in a team? Certainly at school the dimension of individual reward bounded to valutation is prevalent, but in real life social competencies are fundamental.
The tabletop game Paleo can be used for this purpose, where players act as members of a Paleolithic tribe. The everyday routine is well-simulated, and the gameplay pushes participants to cooperate, making shared decisions essential for the group’s survival. There is no winner: all players can finish the game only by helping each other.
Risks of Gamification
As already mentioned, not all games are useful for education, and not all histories can be played: the main risk is that of trivialisaton, making just edutainment. Playing is not just a way to make a boring lesson easier, but it should also promote hard fun, enabling students to experience learning as a pleasure when the challenge provided has been set at a suitable level.
In The Simpsons S31.E12, The Miseducation of Lisa Simpson,[1] Springfield school is replaced by a new high-tech institute, with an education model based on STEM, hard gamification and always-connected devices. Bart, an awful student but a talented player, overturns his record and starts achieving successes, until Lisa finds out the trick: behind all activities lies the plan to enslave students and manipulate them for a gig-economy world, in which every job will be handled by machines, but the only job the robots refuse to carry out is elderly caregiving.
Extreme gamification tends to exacerbate social contradictions that already exist, and in the ultra-competitive economic model that rewards those who are already skilled and marginalizes those who are not, it may promote everything that an inclusive school should avoid by any means.
Finally, should a history teacher be a gamer too? Not necessarily, but if we could give some advice, we would recommend adding a ludic education course to future teachers’ study paths: the aim is not to close the generational gap between teachers and students, but to reduce the one between school world and everyday life.
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Further Reading
- Chapman, Adam. Digital Games as History: How Videogames Represent the Past and Offer Access to Historical Practice. London, Routledge, 2016.
- Brusa, Andrea. Giochi per imparare la storia: Percorsi per la scuola. Roma, Carocci, 2022.
- Gee, James Paul. What Video Games Have to Teach Us About Learning and Literacy. New York, St. Martin’s Press, 2007.
Web Resources
- Scratch library: https://scratch.mit.edu/explore/projects/games/ (last acccessed 17 April 2023).
- The Miseducation of Lisa Simpson: https://www.youtube.com/watch?v=vbhWyA5ypks (last acccessed 17 April 2023).
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[1] Excerpts: https://www.youtube.com/watch?v=vbhWyA5ypks (last accessed 17 April 2023).
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Image Credits
© 2014 Smithsonian Education CC BY-NC-2.0 via flickr.
Recommended Citation
Guazzone, Raffele: Cooperate, Deconstruct, Design. In: Public History Weekly 11 (2023) 3, DOI: dx.doi.org/10.1515/phw-2023-21326.
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Categories: 11 (2023) 3
DOI: dx.doi.org/10.1515/phw-2023-21326
Tags: Games (Spiele), History Teaching (Geschichtsunterricht), Italy (Italien), Language: Italian, Media educational (Didaktische Medien), World War I (Erster Weltkrieg)
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OPEN PEER REVIEW
Covering broccoli with chocolate
The games entered Italian primary school textbooks through the back door. Not from the front door, with training courses, research, a specific production of supports, as one should have thought, since the current programs (2012) include teaching history through play among the tools for teaching history. However, games entered massively, probably favored by a benevolence of pedagogy towards the game. A textbook of the primaries (of history but also of other disciplines) is full of games. Its appearance (colors, illustrations, layout) gives the idea of playfulness. But, if we look at the nature of these games, we must admit that these textbooks attest the victory of gamification – that is the use in non-ludical contexts of some elements typical of the game – rather than ludic didactic. From this point of view, the textbooks adjust to some general characteristics of the XXI century (the Ludic Century, according to E. Zimmerman). To quote the words of M. Dymek and P. Zackariasson, they try to “cover broccoli with chocolate”. These textbooks start from the idea that history is a boring discipline and that, therefore, it is necessary to make it more pleasant, covering it with a playful dress. But they don’t realize that the message they communicate is just the opposite of what they propose: that discipline is – in its essence – boring.
Concerning secondary schools (Colleges and High Schools), these back doors also gradually close as the pupils grow up and the pedagogy loses its influence. In these schools, the fact that history is a boring subject is demonstrated by student surveys which, even if rare, just testify to the unanimous aversion to this discipline. Furthermore, among high school teachers, seems to be successful that “compact disqualifying device toward games”, illustrated by Maresa Bertolo.
There is an incurable opposition between playing and studying. As many commentators on scholastic matters unanimously repeat (from Ernesto Galli della Loggia to Paola Mastrocola), study is hard work, sacrifice, repetition. It is therefore right that the story is perceived as “boring” for those who start to approach it. Joy and pleasure are the final award, reserved for those who have completed the entire path of scholastic suffering. In these schools, the world of school and play are hopelessly separated, if not in conflict.
This is a summary description of the scholastic reality, as it appears from the textbooks and from the public debate on the school. However, there are solid indications that confirm what Guazzone writes about the change of mentality towards games. At the beginning of the 1980s, the exhibition “Il gioco della Storia”, organized by the Cidi (Center for Democratic Initiative of Teachers) of Bari, toured many Italian cities, hosted by the local sites of the association. It was visited by hundreds of teachers, intrigued but, at the same time, intimidated by a news that appeared scandalous. The Historia Ludens association, dedicated to didactic research and teacher training, born in Bari in 1995 (but actually operational since longer time), has long been the only working-group that has tried to move in the problematic “triello”, made up of history, play and didactics.
However, in the 21st century, signs of interest have begun to spread. In 2008, the publishing house “La meridiana” inaugurated the series “P come Gioco”, dedicated to ludic didactics, which in just ten years has published around forty volumes, while game authors (such as Andrea Angiolino) have begun to address their activity to the history, sometimes with didactic intentions. This interest is also noted in “Play. Game Festival”, the games festival that Andrea Ligabue holds in Modena. This year almost 70 exhibitors are expected, mostly Italian, a large presence of schools, and a seminar expressly dedicated to the “triello” (19-20-21 May 2023). The development of public history then brought several university professors to take an interest in the gamification of history, while Renzo Repetti set up a permanent seminar on this topic at the University of Genoa. Besides, the clearest sign of the change can be seen in the museums, whose didactic offer is now entirely oriented towards the laboratory and the game (which only a few decades ago was absent, or limited to para-academic brochures).
Today’s ludic panorama offers the teacher a sample of opportunities well summarized by Guazzone. In turn, these pose problems that are worth highlighting. International didactic research has largely dealt with some of them. In particular, the fact that the teacher is forced to use products not expressly designed for teaching. “It is up to the teacher to adapt them to the class,” writes Guazzone. And this is true in the current Italian situation, which has transformed into a virtue what is a lethal defect of the Italian teacher training system: its endemic lack of disciplinary didactic research. In reality, the teacher should have a panoply of ready-to-use tools available: historical games created for teaching, or reliable adaptations of commercial games.
On the other hand, we must ask ourselves about the state of specific didactic research. A part of this is, meritoriously, oriented towards the critical analysis of the existing. Other researchers, instead, deal with its use. Here, perhaps, some observations should be made. In some cases there is an emphasis on the motivational power of the game, in particular of the video game: subject to the necessary differences, it is analogous to what we have seen above with regard to primary textbooks. In other cases, it is thought that the educational potential of the game manifests itself in verification of documents. But here the game has little to do with it. These are workshops on documents, which – even if they have games as their object – are difficult to consider as “ludic moments”. In other, perhaps more interesting cases, the game is the trigger for problems which are then discussed after the game (and this seems to me to be the case for the games considered by Carmine Ruocco).
Too little, one could say, compared to the promises of games and, above all, of video games. It is true. Therefore, we should ask ourselves about the causes of this lack of correspondence between what we all hope and the actual results. In my view, this happens because researchers debate about playability, but tend to neglect didactic playability. This additional adjective – “didactic” – builds a world different from that of entertainment, edutainment and public history. The didactic playability requires dealing with authentic oxymorons: games that don’t last long, easy, but at the same time essential from a historical and educational point of view. It implies a particular quality of history. A history “ready-made” for the game and not a history that you try to gamify in some way. It implies a game designer that thinks about the aftergame already in the gestation phase of the product, and not at the end, after everything has been written and established.
In short, the didactic playability sees the “triello” as a system in which history, didactics and game interact, and not as an algorithm, in which history comes first (whether it is “academic” or “public” it does not matter), then comes the game designer and last comes the teacher that miraculously extracts the educational benefits. In the end, it implies a serious and indispensable research on the “didactic culture of the game”. Every tool – even the the textbook – needs an elaborate culture in order to be used correctly. The fact that this problem is neglected in university research and in the professional training of the teacher has the harmful consequence of the banalization of the tool: from the more traditional ones (the lesson and the manuals) to the new ones, including games.
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Ricoprire i broccoli con la cioccolata
I giochi sono entrati nei manuali della scuola primaria italiani dalla porta di servizio. Non dalla porta principale, con corsi di formazione, ricerche, una produzione specifica di supporti, come era lecito pensare, dal momento che i programmi vigenti (2012) includono la didattica ludica fra gli strumenti per insegnare storia. Sono entrati in massa, però, probabilmente favoriti da una generica benevolenza verso il gioco della pedagogia. Un manuale delle primarie (di storia ma anche di altre discipline) è zeppo di giochi. Il suo stesso aspetto (colori, disegni, impaginazione) dà l’idea della giocosità. Ma, se si guarda alla natura di questi giochi, si deve ammettere che questi manuali testimoniano la vittoria della gamification – e cioè dell’utilizzazione in contesti non ludici di alcuni elementi tipici del gioco – più che della didattica ludica. Da questo punto di vista, i manuali si adeguano ad alcune caratteristiche dominanti del XXI secolo (the Ludic Century, secondo E. Zimmerman). Per riprendere le parole di M. Dymek e P. Zackariasson, cercano di “ricoprire i broccoli con la cioccolata”. Questi manuali partono dal principio che la storia sia una disciplina noiosa e che, perciò, occorra renderla più gradevole, ricoprendola con un vestito ludico. Ma non si rendono conto che il messaggio che comunicano è proprio l’opposto di ciò che si propongono: e cioè che la disciplina sia – nella sua essenza – noiosa.
Per quanto riguarda le scuole secondarie (Colleges e High Schools) anche queste porte di servizio si chiudono progressivamente, man mano che gli allievi crescono e la pedagogia perde il suo appeal. In queste scuole, il fatto che la storia sia una materia noiosa è dimostrato dalle indagini sugli studenti che, per quanto scarse, testimoniano l’avversione unanime per questa disciplina. Fra i docenti delle scuole superiori, inoltre, sembra vincente quel “compatto dispositivo dequalificante nei confronti dei giochi” illustrato da Maresa Bertolo.
Fra giochi e studio c’è un’opposizione insanabile. Come ripetono concordemente molti commentatori di cose scolastiche (da Ernesto Galli della Loggia a Paola Mastrocola), lo studio è fatica, sacrificio, ripetizione. È giusto, dunque, che la storia sia percepita come “noiosa” per chi si avvia alla sua conoscenza. La gioia e il piacere sono il premio finale, riservato a chi ha compiuto per intero il percorso di sofferenza scolastico. In queste scuole, l’universo della scuola e quello ludico sono irrimediabilmente separati, se non in conflitto.
Questa è una descrizione sommaria della realtà scolastica, quale appare dai manuali e dal dibattito pubblico sulla scuola. Tuttavia, ci sono solidi indizi che confermano quello che Guazzone scrive a proposito del cambiamento di mentalità nei confronti dei giochi. Al principio degli anni ’80, la mostra “Il gioco della Storia”, organizzata dal Cidi (Centro di Iniziativa Democratica degli Insegnanti) di Bari, fece il giro di molte città italiane, ospitato dalle sedi locali dell’associazione. Fu visitata da centinaia di docenti, incuriositi ma, insieme, intimoriti da una novità che appariva scandalosa. L’associazione Historia Ludens, dedicata alla ricerca didattica e alla formazione dei docenti, nata a Bari nel 1995 (ma in realtà operativa da vari anni), a lungo è stata l’unica realtà che ha cercato di muoversi nel triello problematico, costituito da storia, gioco e didattica.
Però, nel XXI secolo, i segni dell’interesse hanno cominciato a diffondersi. La casa editrice “La meridiana” ha inaugurato nel 2008 la collana “P come Gioco”, dedicata alla didattica ludica, che in appena dieci anni ha pubblicato una quarantina di volumi, mentre autori di giochi (come Andrea Angiolino) hanno cominciato a indirizzare verso la storia la loro attività, a volte con intenti didattici: cosa, peraltro, che si nota anche in “Play. Festival del gioco”, la kermesse di giochi che Andrea Ligabue organizza a Modena. Quest’anno sono previsti quasi 70 espositori, per la maggior parte italiani, una folta presenza di scuole, e un seminario espressamente dedicato al “triello” (19-20-21 maggio 2023). Lo sviluppo della public history ha, poi, indotto diversi docenti universitari a interessarsi alla ludicizzazione della storia, mentre Renzo Repetti ha istituito presso l’Università di Genova un seminario permanente su questo argomento. Ma, forse, il segno più evidente del mutamento si nota nei musei, la cui offerta didattica (solo qualche decennio fa assente, o limitata a opuscoli para-accademici) ora è interamente orientata sul laboratorio e sul gioco.
Il panorama ludico odierno offre al docente un campionario di opportunità, ben sintetizzato da Guazzone. Al loro volta, queste pongono dei problemi che vale la pena mettere in evidenza. Di alcuni la ricerca didattica internazionale si è ampiamente occupata. In particolare, del fatto che il docente è costretto a utilizzare prodotti non pensati espressamente per l’insegnamento. “Spetta al docente adattarli alla classe”, scrive Guazzone. E questo è vero nella situazione corrente italiana, che ha trasformato in virtù quello che è un difetto letale del sistema formativo italiano: la sua mancanza endemica di ricerca didattica disciplinare. In realtà il docente dovrebbe avere a disposizione una panoplia di strumenti già pronti per l’uso: giochi storici nati per la didattica, oppure adattamenti affidabili di giochi commerciali.
Per altro verso, ci si deve interrogare sullo stato della ricerca didattica specifica. Una parte di questa è, meritoriamente, orientata all’analisi critica dell’esistente. Una parte, invece, si occupa della sua utilizzazione. Qui, forse, alcune osservazioni andrebbero fatte. In alcuni casi si insiste sul potere motivazionale del gioco, in particolare del videogioco: fatte salve le necessarie differenze, è un discorso analogo a quello che abbiamo visto a proposito dei manuali di primaria. In altri casi, si pensa che le potenzialità didattiche del gioco si manifestino nella verifica documentaria. Ma qui il gioco c’entra poco. Si tratta di laboratori sui documenti, che – anche se hanno per oggetto il gioco – sono difficilmente considerabili come “momenti ludici”. In altri casi, forse più interessanti, il gioco è il fattore scatenante di problemi che poi vengono discussi nel dopogioco (e mi sembra questo il caso dei giochi presi in considerazione da Carmine Ruocco).
Troppo poco, si potrebbe dire, rispetto alle promesse formative dei giochi e, soprattutto, dei videogiochi. È vero. Perciò, dovremmo interrogarci sulle cause di questa mancata rispondenza fra ciò che tutti intuiamo e i risultati effettivi. A mio modo di vedere, questo accade perché si discute di giocabilità, ma poco di giocabilità didattica. Questo aggettivo in più – “didattica” – costruisce un mondo diverso da quello dell’entertainment, dell’edutainment e della public history. La giocabilità didattica impone di vedersela con autentici ossimori: giochi che durino poco, facili, ma al tempo stesso essenziali dal punto di vista storico e formativo. Implica un concetto di storia “già predisposto” al gioco e non una storia che si cerca in qualche modo di ludicizzare. Implica una progettazione che pensi al dopogioco già nella fase di gestazione del prodotto, e non alla fine, dopo che tutto è stato scritto e stabilito.
Insomma, vede il “triello” come un sistema nel quale storia, didattica e gioco interagiscono, e non come un algoritmo, nel quale prima viene la storia (che sia “accademica” o “pubblica” poco importa), poi la sua trasformazione in gioco e per ultimo arriva la didattica che ne estrae miracolosamente i benefici formativi. Implica, infine, una seria e imprescindibile ricerca sulla “cultura didattica del gioco”. Ogni strumento – perfino il manuale – ha bisogno di una cultura elaborata, per poter essere utilizzato correttamente. Il fatto che nella ricerca universitaria e nella formazione professionale del docente si trascuri questo problema ha la conseguenza nefasta della banalizzazione dello strumento: da quelli più tradizionali (la lezione e i manuali) ai nuovi, fra i quali appunto i giochi.